L'irresistibile leggerezza della banalità

Ognuno di noi ha delle cose care, a cui dà tanto valore da ritenerle essenziali, sacre. Per me una di queste cose essenziali è la poesia. La poesia è la forma di comunicazione verbale più sintetica in grado di cogliere la Bellezza intorno e dentro noi. Avendo la Bellezza origine divina, la poesia è anche una porta che apre un passaggio verso Dio. Non ha regole, la poesia: può materializzarsi nell'eloquio forbito e geometricamente elegante delle terzine della Divina Commedia di Dante, o nella metrica libera di Pascoli, fino all'estrema sintesi di Ungaretti.

William-Adolphe Bouguereau, Ispirazione (1898)
Collezione privata.
Immagine gentile concessione di Wikipedia.

È doloroso constatare quanto poco la poesia sia apprezzata oggi, nonostante le apparenze dicano il contrario. Non assistiamo infatti alla sua negazione esplicita, ma allo svuotamento del suo significato, seguendo quel processo di manipolazione semantica della lingua che Orwell aveva sapientemente previsto. Il vero nemico della poesia non è quindi la sua mancanza - che lascerebbe un vuoto di cui quasi tutti si renderebbero conto, spingendoli ad una ricerca - ma la banalità, l'apparente magniloquenza senza fondamento, che può dare un falso senso di riempimento di quel vuoto. Ecco, oggi tutto è poesia, tutti sono poeti, tutti capiscono e amano la poesia, ma nel migliore dei casi non si è capaci di distinguere un cantautore da un poeta; nei casi più comuni, si arriva a definire poesia il gesto di un calciatore che ha scartato l'avversario e ha segnato, oppure quel particolare piatto servito da uno chef “stellato” magnificato in quel programma televisivo alla moda. Se mettete un lucchetto su una ringhiera, o scarabocchiate su un muro di un famoso vicolo a Verona, siete poeti. Todos caballeros. Se tutto è poesia, anche il banale, cioé l'esatto opposto della poesia, allora niente è poesia.

Concausa importante di questo fenomeno - la cui radice primaria è la mancanza di formazione e di educazione alla fruizione del Bello - è il conformismo auto-gratificante per cui masse di persone vanno a rimorchio di un'idea “di successo”, tentando di appropriarsi di una briciola di quel successo. Se elogio Tizio, che è apprezzato e famoso, mi illudo di ricevere un po' della sua luce riflessa; se poi lo elogio superlativamente, ripetendo frasi fatte anch'esse di successo (per cui il calciatore, lo chef o l'attore diventano poeti), posso pure darmi un'aria da grande critico d'arte. Guardate i forum di fotografia: a meno che non siano partecipati da pochi intimi e competenti, nelle critiche è ormai quasi impossibile trovare giudizi equilibrati, non superficiali; si è sommersi da ripetitivi e scontati “meraviglioso”, “poetico”, “sembra un quadro” (frase di cui nessuno sa il significato concreto), ovviamente conditi da uno sproposito di punti esclamativi e smiley. Purtroppo temo che anche il successo di musei e mostre sia in parte dovuto più alla volontà di poter dire “io ci sono stato” che non al semplice desiderio di godere ed interiorizzare la bellezza in esposizione. È tutto un grande selfie, anche se non necessariamente si esprime in una foto, ed è un sintomo della dittatura dell'io che caratterizza questo periodo storico. Ancora più subdola delle precedenti ideologie novecentesche, lascia credere alle sue vittime di essere veramente libere e padrone di sé, mentre sono soggette ad una nuova forma di manipolazione. Infatti il fenomeno è ampiamente sfruttato a vantaggio di certi personaggi scaltri: per esempio, politici da quattro soldi scrivono biografie di grandi statisti del passato - senza peraltro aggiungere contenuti originali -, mettono su un ciclo di conferenze e, voila, eccoli splendere come la Luna che riflette i raggi del Sole. Si aprono praterie immense per editori ed autori che riescono a vendere in grande quantità i propri prodotti di scarsa qualità: cosa è bello e cosa è addirittura poetico, in definitiva, lo decide il loro ufficio del marketing, ben inserito nel mainstream mediatico.

In Italia abbiamo un eccellente esempio del fenomeno pseudo-poetico: Roberto Benigni. Attore comico sin dalle origini, caratterizzato dall'atteggiamento graffiante e anarchico, con qualche problema di censura, il vero apice della sua carriera fu nella co-interpretazione di “Non ci resta che piangere” insieme a Massimo Troisi. Un film delizioso, in cui le diverse personalità dei due attori comici si completavano mitigando reciprocamente gli eccessi farseschi dell'uno e malinconici dell'altro. Seguirono alcuni film di successo in cui Benigni espresse la sua propria forma di comicità, decisamente poco raffinata, a volte becera, ma che ha dalla sua un gran numero di estimatori. Poi arrivò il colpo da maestro, il film “La vita è bella”, in cui Benigni affrontò il tema della Shoah per lanciarsi nella recitazione “impegnata”, pur mantenendo la vena prevalentemente comica. Grande successo per lo sfruttamento del brand Benigni, non a caso attraverso un premio Oscar a Hollywood, che ormai da qualche decennio suggella la morte dell'arte cinematografica sacrificata al mercato. Eppure i limiti dell'attore furono evidenti nei successivi flop di “Pinocchio” (il film più costoso della storia del cinema italiano) e “La tigre e la neve”; per non parlare del penoso ennesimo episodio de la Pantera Rosa. Il classico passo più lungo della gamba, dovuto alla non consapevolezza dei propri limiti. Occorreva un nuovo format per uscire dalla strada del declino, senza però tornare indietro alla comicità becera, che alla lunga stanca (e ha bisogno di volti sempre nuovi). Ecco così, messo da parte il cinema, arrivarono le letture di Dante, la vera trasformazione di Benigni: dal declino del comico ormai spompato alla sublimazione nel campo dell'alta cultura.

Si racconta che Sergio Leone dicesse che “[Clint] Eastwood ... aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello”. Non so se il giudizio fosse appropriato (certamente non lo è per l'Eastwood più maturo), ma il Benigni di oggi è certamente peggio: lui ormai ha una sola espressione. Può parlare di Shoah, di guerra, di Inno di Mameli, di Divina Commedia, della Costituzione Italiana fino arrivare, nei giorni scorsi, ai Dieci Comandamenti, e tutte le cose appaiono nel medesimo modo. Non a caso un noto critico televisivo ha coniato, a tal proposito, il termine “benignizzazione”. Fateci caso, Benigni non esce dal suo cliché neanche durante le interviste; come se Charlie Chaplin si fosse fatto vedere per tutta la vita, anche fuori dal set, con i baffetti, il cappello e il bastone. Qualsiasi cosa legga, la infarcisce degli stessi complimenti, iperboli, esclamazioni (spesso banali: “ma che bello”, “questa è poesia”, eccetera), mentre si dà una patina di finta umiltà con il suo atteggiamento da giullare. Apparentemente sfoggia magniloquenza, mentre la sua è solo ridondanza, una verbosità barocca. L'irresistible leggerezza della banalità che trionfa. Che noia, che barba, che barba, che noia...

La retorica di Benigni è funzionale non all'esaltazione dell'argomento (Dante certo non ha bisogno delle sue lodi), ma alla magnificazione del declamatore; e al conseguente appagamento dell'ascoltatore, così fortunato da poter assistere al suo spettacolo. È un doppio fenomeno di luce riflessa: da Dante a Benigni, da Benigni all'ascoltatore. Alla fine è come se vi servissero un pranzo completo, dall'antipasto all'ammazzacaffè, in cui tutte le portate hanno lo stesso sapore dolciastro, servite dallo chef in persona sotto un effluvio di complimenti a sé stesso; voi però potrete dire di essere stati in quel ristorante così alla moda. Benigni è in effetti diventato come una multinazionale alimentare, capace di grandi profitti, grandi produzioni, grande marketing, grande distribuzione, ma che sforna prodotti sciapi e stereotipati; una specie di McDonald's della cultura, solo più caro.

I benpensanti apprezzatori di Benigni, generalmente, attaccano le critiche negative tacciandole di elitismo: come se il problema fosse il fatto che un guitto, un giullare come Benigni si occupa di alta cultura. Forse c'è ancora qualche bacchettone che ragiona in questo modo; ma per quanto mi riguarda, l'osservazione è totalmente priva di significato. La contaminazione tra gli stili, tra il serio ed il faceto, tra il poetico e il comico, non è certo una novità e, solo a guardare l'ultimo secolo, ne abbiamo eccellenti dimostrazioni in attori-registi come Charlie Chaplin, Jacques Tati, Peter Sellers; per rimanere in Italia, Edoardo de Filippo, a suo modo Totò, fino ad arrivare al citato Massimo Troisi. Persino l'argomento più tragico, come la Shoah, può essere affrontato in chiave mista, come in “Train de Vie” di Radu Mihăileanu - film che è ben più originale de “La vita è bella”. Non critico questa contaminazione; anzi, se fatta bene la apprezzo. Figuratevi che la mia passione per la Divina Commedia risale all'infanzia, alla lettura de “L'Inferno di Topolino”, una parodia della Divina Commedia in salsa Disney, prodotta nel 1949 da due disegnatori italiani. Roba tipo:

Io son nomato Pippo e son poeta
Or per l'inferno ce ne andremo a spasso
Verso oscura e dolorosa meta.

Certo, cose da far inorridire i veri bacchettoni. Dalla vignetta in cui Topolino si addormenta e sogna di “entrare” nel libro attraverso un'illustrazione di Gustave Doré alla mia curiosità per la vera edizione della Commedia illustrata da Doré, che stava nella libreria in salotto, il passo fu breve. Con questo aneddoto è anche chiaro quale possa essere un valore pedagogico di una parodia; non a caso nelle strisce finali de “L'Inferno di Topolino” incontriamo il “vero” Dante, che mette a supplizio gli autori del fumetto, ma si persuade a liberarli dopo aver compreso che la loro opera può essere stimolo per la lettura dell'originale (ed è apprezzabile questa chiosa esplicita, vista la giovane età dei lettori). Dunque, l'avventura di Topolino nel fumetto è un sogno, è altro dall'originale, così pure la rocambolesca fuga di Schlomo e dei suoi compagni ebrei in “Train de Vie” è, purtroppo, un sogno, una fuga dalla tragica realtà, come viene rivelato nella scena finale. Solo uno sciocco lettore del fumetto può pensare che la Divina Commedia sia una storia di topi e paperi parlanti, così come solo uno sciocco spettatore del film può pensare che la Shoah fu un'allegra fuga in treno. Il rischio della banalizazione è evitato, né la pseudo-poesia o la pseudo-storia possono prendere il posto degli originali. Ben venga dunque la commistione tra stili, ben venga pure la parodia, anche da avanspettacolo - qualora non suoni irrispettosa - finché la rielaborazione rimane cosa diversa e distinguibile dal soggetto originale.

Invece con Benigni la confusione è totale: l'attore non solo declama, ma diventa esegeta, costituzionalista, storico, teologo. Da attore a giullare, da giullare a declamatore di poesie, da declamatore a poeta, da poeta a grande intellettuale eclettico: basta procedere per piccoli passi e l'inganno è servito. Pazienza se - come nel caso dei Dieci Comandamenti - Benigni riduce il Cristianesimo a moralismo (come se lo scopo dei Comandamenti fosse solo la costruzione di un sistema etico), riporta cose in modo distorto, fino a falsificare dati storici (come quelli sull'incidenza della religione nelle guerre, contraddicendo quanto sostenuto da molti studiosi). Tanto l'evento televisivo è regolarmente preceduto e seguito da un'accurata campagna pubblicitaria, autoreferenziale, intrapresa dalla stessa RAI e dai suoi dirigenti, senza nessun confronto con opinioni critiche. È l'ennesima vittoria del pensiero unico, paradossalmente e tristemente interpretata da un ex anarchico ora imborghesito. Benigni non si cura neanche del principio di non contraddizione (francamente è inevitabile se ci si riduce all'elogio superlativo sempre e comunque): per cui quando parla dei Dieci Comandamenti li esalta sopra ogni cosa, mentre in un precedente spettacolo li aveva giudicati inferiori alla Costituzione Italiana (!) perché “pongono dei divieti”. Un'analisi sopraffina. Ma non è un problema, tanto la gente dimentica presto, della puntata precedente ricorda solo che Benigni è stato grande - e deve essere vero se è quello che sostengono (quasi) tutti. Nonostante le alte pretese, in realtà il prodotto di Benigni è paccottiglia, canzonette: in mente deve rimanere solo il ritornello. E così, mentre Benigni si arricchisce di qualche milione di euro a puntata, gli spettatori credono di raggiungere chissà quali vette culturali; invece diventano sempre più poveri in spirito.

Certo, qualcuno forse si sentirà stimolato a leggere l'originale e questo sarebbe un effetto positivo, a prescindere dalla mediocrità della performance; ma la maggioranza, che già legge poco, si sentirà sazia di essere stata parte di un così grande evento e resterà convinta che la poesia nella Divina Commedia, o nei Dieci Comandamenti, sono quella parodia televisiva che ha messo in scena Benigni. E rimarrà privata a lungo, forse per sempre, della bellezza degli originali.

PS Si dice che la performance di Benigni sui Dieci Comandamenti sia stata apprezzata dal Santo Padre: al momento in cui scrivo, la notizia non è verificabile (e la fonte è sospetta). Ma è vero che i giornali della corte papale, come Avvenire, hanno già incensato il comico toscano, mettendosi nella scia di tutti i conformisti. Non mi stupisce, anzi tutto torna, in un periodo storico in cui l'irresistibile leggerezza della banalità si è intrufolata da tempo anche nella Santa Sede.